Incrociando lo sguardo di altri C’è qualcosa d’impressionistico nel “sentire” di Klaus Fruchtnis e nel suo modo di fare. Ma a differenza dei grandi pittori della fine dell’800 che camminavano per campi cercando il meglio della luce del sole, il luogo giusto per disporre gesti e pennelli alla spinta del vento e accendere i colori coi profumi e i suoni della natura, il suo modo di sentire è il risultato di un tenace e assiduo calpestio del duro asfalto della città. Calpestare appunto, percepire il peso dei propri passi, spostarsi sulla base di una curiosità, di una piccola scoperta o di un suggerimento casuale o di una richiesta; marcare il proprio itinerario nelle coordinate di un gps o nei segni applicati ad una mappa urbana fatta di linee rette, di sagome geometriche, di pochi colori simbolici. Camminare compilando un taccuino scattando foto digitali, girando brevi frammenti video, raccogliendo alcune voci o tracciando qualche disegno sull’ IPad. Formulando una ricchezza di appunti, che spaziano tra svariati linguaggi, dai più tradizionali agli innovativi, che si rincorrono e sovrappongono in una scintillante mescolanza. E’ da considerare con attenzione questa necessità di scoprire il territorio con passo “pesante”, questa voglia di mettere i piedi per terra, che emerge anche dalle pratiche di molti altri giovani artisti, che sembrano allontanarsi dalle fumose concettualità o dalle furbe trovate dell’arte contemporanea. Dimostra la necessità di percorrere nuove sensibilità che favoriscono modi di relazionarsi e donarsi agli altri, che respirano un senso civile di responsabilità, che penetrano i nuovi media con la consapevolezza. Colpisce, in loro, la capacità di ascolto e di sguardo, la disponibilità all’imprevisto e al contrattempo, l’attenzione ritrovata verso la narrazione e l’emozione degli altri, persino dei più diversi. Ma colpisce anche la leggerezza con cui si utilizzano i linguaggi della nostra epoca, li combinano con quelli della tradizione, ad esempio proprio il disegno. Mi voglio soffermare su questo punto perché mi è caro e mi avvicina all’esperienza di Klaus ancor di più. Il disegno nella nudità dei suoi segni, è rivelatore di intenzioni. L’immediatezza con cui il pensiero si concretizza su un foglio di carta ci racconta infatti del mondo invisibile da cui proviene. Dunque frugando nei tratti di questo giovane artista trovo la voglia di scoprire Milano, questa nostra città così dileggiata, accarezzandola con segni essenziali e veloci, come a svelare una bellezza resa opaca dal malanimo di questi decenni. Segni generati con un distacco sano che non prevede né l’approccio arrogante, nè il gesto incisivo e dannato dell’espressionismo, ma viceversa il delicato ripercorrere delle linee su alcuni suoi scorci: una sorta di ricalco digitale, persino sensuale per la forte sensazione tattile che il disegno restituisce. Ecco come sente la città Klaus, scorrendola con la mano, calpestandola con i piedi e incrociandola con lo sguardo degli altri. Si, degli altri. Infatti è nella pratica collaborativa, nel confronto, ma anche nella tensione processuale, nel considerare cioè la forma aperta e progressiva della propria “opera”, che la sua estetica prende la forma di un percorso etico che va oltre il proprio sentire per divenire sentire condiviso. Questo è il tipo di progetto culturale che più si avvicina alla concezione di arte che prediligo. E che ritengo necessaria, in questi tempi in cui forte è l’esigenza di rigenerare una sensibilità, compromessa dall’irruenza mediatica e dalla complicata condizione del mondo. Nella pratica di questo giovane artista convivono tre elementi chiave importanti che potranno segnare il nostro orizzonte prossimo e farci avvicinare ad un’aria nuova. © Paolo Rosa, Studio Azzurro |